In quel bellissimo film di Roman Polański, che è “Il pianista” , vi è una scena che mi ha particolarmente colpito, non solo per la sua cieca, impulsiva brutalità, ma anche e soprattutto perché mi ha permesso di riflettere su cosa veramente possa essere, nella sua spietata espressione dell’ “inumano”, l’azione di guerra. Qualsiasi azione di guerra.
La scena è ambientata nel ghetto ebraico di Roma, all’alba del 16 ottobre 1943, il giorno in cui le SS vi fecero irruzione per un imponente rastrellamento degli ebrei da destinare ai campi di sterminio.
Allo scopo di organizzare al meglio la deportazione, un primo gruppo di prigionieri, strappati brutalmente al sonno e alle loro case, fu fatto allineare lungo un marciapiedi, quando una ragazza, la prima della fila, rivolgendosi all’ufficiale in capo delle SS che era di fronte a lei, con tono garbato e festoso come di chi si stesse preparando ad una gita fuori porta e non ad un viaggio verso la morte, osò candidamente chiedergli: “dove ci portate?”
Per tutta risposta l’ufficiale estrasse rapidamente la pistola e le sparò un colpo in fronte facendola stramazzare al suolo.
Ecco quello che è assolutamente insopportabile per chi sta esercitando l’azione violenta della sopraffazione sui propri simili, come è ogni aziona di odio: che l’altro, la vittima, ponga una qualsiasi domanda, “dove ci portate?”, come nel caso della ragazza, ma anche, per esempio, “cosa state facendo?", oppure, peggio ancora, semplicemente un “perché?”
È la domanda che chi odia il proprio simile non può tollerare, poiché, attraverso la domanda, egli viene messo inevitabilmente nella condizione di dover pensare a quello che sta facendo. Non è che basti non rispondere, serve che la domanda non venga proprio formulata: chi osa porla non può che essere all'istante eliminato.
Nella scena del film, quell’ufficiale non può consentire la domanda della ragazza poiché l'avrebbe messo di fronte allo scenario di un genocidio che non poteva neanche essere pensato. La domanda di quella ragazza è una bomba atomica nella mente dell’ufficiale, che va stroncata sul nascere con le armi, eliminando chi ha osato porla. La domanda costringe ad un pensiero sulla propria azione, e dunque ad un’ammissione intollerabile di responsabilità. Sparare in fronte significa allora colpire, annientare l'origine stessa della domanda, eliminare radicalmente il luogo fisico da cui la domanda nasce: il cervello, metonimia della mente nell'atto di pensare.
L’aggressore, per questo, è doppiamente vile: perché aggredisce l’altro sapendolo inerme e perché si sottrae alla propria responsabilità.
Ma la domanda è inammissibile anche e soprattutto per un altro motivo: perché ogni domanda implica il riconoscimento dell’altro in quanto proprio simile, un riconoscimento che l’aggressore, chi prevarica, chi odia non possono permettersi in quanto sarebbe il riconoscimento di sé come essere umano, sarebbe il riconoscimento di avere una qualità umana, di una qualità significante evidentemente insostenibile, la qualità di essere, come dice Lacan quando definisce il soggetto umano, “un significante per un altro significante”, destinatario cioè di un discorso, di un patto simbolico, di un legame sociale, tutte dimensioni della dialettica intersoggettiva mediate dalla domanda.
È esattamente questo che non può avvenire: che l’aggressore si offra ad una dialettica con l’altro. L’aggressore può operare solo se occulta a se stesso la propria umanità come scambio con l’altro, solo se si costituisce nella sua solitudine, solo se si sottrae ad ogni offerta di parola, solo se si rende cieco e sordo alla mano che l’altro gli tende e alla domanda cui l’altro lo destina poiché, come dice Lacan, “ogni domanda è sempre domanda d’amore” e non c’è nulla che l’aggressore possa odiare di più come l’amore.
L’aggressore può disporre di tutte le armi e di tutta la potenza bellica del mondo, ma rimarrà sempre tragicamente indifeso nei confronti della domanda, nei confronti della domanda d’amore proveniente dall'altro.
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