IL FINE DI UN'ANALISI
L'etica del sintomo
E dunque qual è la prospettiva della psicoanalisi
come clinica
? Certo non quella di favorire integrazioni di funzioni
a livello di un Io
concepito come istanza da rafforzare sul piano di un efficientismo funzionale alle aspettative dell' Altro immaginario
, ma quella di restituire il soggetto
alla radicalità della sua divisione soggettiva
tra il sapere
che suppone di sé e la singolarità della sua verità
, rivelandogli che è proprio in questo scarto di verità rispetto al sapere che egli può trovare il suo discorso rivolto all'Altro della domanda e all'Altro del riconoscimento.
In questa prospettiva ciò che mutano non sono le funzioni dell'Io, ma le funzioni e l'uso che il soggetto può fare del suo sintomo
, che da iniziale via d'ingresso in analisi in quanto ciò che, nel reale, non funziona e fa "difetto", arriva ad essere alla fine della stessa "l'unica cosa che invece funziona" in quanto strumento, utensile che ponteggia e borda lo scarto tra sapere e verità.
La fine dell'analisi è la restituzione di un sintomo -di cui si credeva di doversene liberare- come risorsa, come qualcosa di cui poterne e saperne fare invece buon uso.
Siamo però consapevoli come analisti che ciò corrisponde a delle sovversioni soggettive rispetto a ciò che oggi viene considerato il modello di salute?
Siamo consapevoli che non possiamo disinteressarci al fatto che ristabiliamo il principio del diritto al sintomo in un contesto sociale nel quale sempre più se ne pretende invece la radicale e definitiva estirpazione?
In quanto analisti abbiamo allora il compito etico, oltre che della cura, anche della difesa sociale del sintomo, in quanto non inceppo di funzionamenti, ma in quanto ciò che fa tenuta alla divisone del soggetto
. Abbiamo dunque il dovere di reclamare al sintomo il suo diritto in nome del soggetto.
